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Itinerari del vino, due chiacchiere con Pia Berlucchi

Itinerari del vino, due chiacchiere con Pia Berlucchi

Continua il nostro viaggio nel mondo affascinante del vino, con Pia Berlucchi, già Presidente dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino e lei stessa produttrice lombarda di etichette, quali Casa delle Colonne e Freccia Nera. Leader dell’azienda Fratelli Berlucchi. donna dotata di un’energia inestinguibile e di una curiosità instancabile verso la realtà materiale, culturale e intellettuale, Pia Berlucchi è il simbolo di una femminilità che, senza perdere le sue qualità di sensibilità e il suo ruolo di moglie e madre, dimostra la sua essenza volitiva e determinata nell’affermarsi in modo originale e inimitabile nel settore vitivinicolo.

Che valori vuole passare ai suoi clienti con le etichette che produce?

P.: I valori che sento nell’anima perché sono molto coerente. Quello che sento come valori della mia vita personale, della mia famiglia e della vita in genere, lo trasmetto anche nel lavoro. Non ho mai sdoppiato le personalità. Questo potrebbe essere negativo per me perché mi faccio prendere anche l’anima da quelli che lavorano con me, invece qualche volta bisognerebbe un pochino tagliare. Nelle mie bottiglie voglio passare il lavoro della terra, il rispetto per la terra, l’amore per le tradizione italiana e mediterranea, ma anche il gusto e l’eleganza che fanno parte del made in Italy nella presentazione finale della bottiglia.

  • Una sua etichetta particolare, un’etichetta che esce particolarmente dal cuore, qual è?

P.: Un’etichetta particolare è la Freccia Nera presentata sei mesi fa, ma direi che quella che più esce dal cuore, visto che si parla di cuore, è la linea Casa delle Colonne, che ricorda la nostra casa dove abbiamo passato l’infanzia e l’adolescenza con le persone care. Quella casa dove si è svolta la storia dell’anima, episodi divertenti, ridicoli e spiritosi, oppure tristi, ma che comunque fanno parte di noi e che hanno segnato con impronta positiva, naturalmente, il decorrere della “ormai” lunga vita.

Arguta e colta, Pia Berlucchi riesce in modo magistrale a mettere insieme uno humor sottile con l’analisi precisa dei passaggi storici e interiori che riguardano sia la sua persona che l’azienda di cui è leader e che nel nome già profuma di famiglia.

  • Quali sono i valori di famiglia di cui sono intrisi i vini da lei prodotti?

P.: Il papà purtroppo l’ho conosciuto poco perché morì che avevo 7 anni, però sapevo dell’onore che tutti gli davano nella città di Brescia per il suo lavoro di ingegneria. Era specialista nella trasformazione della violenza dell’acqua, che scende dalle alpi lombarde, in energia elettrica. Un papà fortemente bresciano e molto pragmatico, una mamma che era una pianista. Due mondi diversi, un amore immenso. Diciotto anni di differenza tra di loro: distanza di età che io ho riperpetuato con mio marito, che ha recentemente compiuto 90 anni, mentre io ne ho 72, appunto, 18 anni esatti tra di noi. I valori sono il rispetto di tutto, dalla margherita all’orchidea, cioè della natura, e ovviamente rispetto straordinario degli esseri umani. Per cui mamma era adorata da tutti, dai contadini di questa terra; infatti quando vado nel nostro cimitero in alto alla collina qui a Borgonato, trovo ancora persone che mi dicono con enfasi quanto facesse per aiutarli la mia mamma, e tutto questo mi commuove.

Nel contempo, la cultura mostruosa di mia madre che ci martellò in testa sempre, cantando i pezzi d’opera, suonando Le quattro stagioni di Vivaldi, buttando lì una frase in latino, una in greco. Ancora oggi, quando noi ci troviamo tra fratelli, ci parliamo con questi aforismi, tanto che, se c’è un estraneo, non ci capisce. Mia mamma diceva sempre: “Fai bene quello che fai. Age quod agis!”, come affermava Cicerone. Per non parlare della passione per la musica che la mamma ci ha infuso senza mai essere pesante. Sempre mia madre, era bravissima nel trasformare la musica in una sorta di linguaggio esplicativo. Per esempio, mentre era in corso una pioggia primaverile, suonava il pezzo corrispondente di Vivaldi e ci faceva notare fin da piccoli che era la stessa melodia resa con le note, ma anche differenziandolo con gli accordi pesanti di un temporale per farci notare le differenze. Altre volte suonava qualcosa e ci chiedeva quale fosse il riferimento nella realtà. In questo modo noi bambini, già a 4 anni, capivamo la musica allegra, quella triste. Questa è una ricchezza incommensurabile che mi porto dentro ancora oggi. Tanto che, se sono a casa e ho un momento di malinconia, dico a me stessa: “Aspetta un attimo che metto su Schubert, che era l’alllegro musicista che allietava le strade di Vienna”. Io però posso anche mettere Chopin, che era il tormentato. Per dirla in breve, scelgo a seconda se mi sento più sostenuta dal creare contrasto rispetto al mio stato d’animo oppure dal sentirlo assecondato dagli accordi musicali. Quindi amore per l’arte, per la musica, che significa il valore della bellezza creativa agita in ogni azione, anche e soprattutto nella vinificazione e nella realizzazione delle etichette.

  • Parliamo della sua famiglia attraverso le etichette. Lei dice che il verbo “ricordare” per voi ha una valenza fortissima. Freccia Nera è proprio l’etichetta princeps che testimonia questo valore. Potrebbe dirci in modo più preciso?

P.: “Ricordare” per noi ha una valenza importantissima sia negli affetti che nella cultura. Infatti nel lontano 1977, Roberto, uno dei miei quattro fratelli ingegneri (diciamo che evidente che il papà abbia lasciato un segno), invitò a bere un bicchiere, qui in Franciacorta, il grande grafico bresciano e cultore della grafia, Franco Maria Ricci. Con l’occasione gli si fecero vedere gli affreschi di questa villa. Nella sala con camino, dove c’è lo stemma austroungarico con le due teste d’aquila, che ricordavano il regime con le due capitali (Vienna e Budapest), lui prese un pezzo di carta e una matita e, come fanno i grandi disegnatori, fece una bozza e disse che l’etichetta l’avrebbe fatta così. In effetti, dopo qualche tempo, ci arrivò su cartoncino nero, il disegno dell’etichetta in oro (si ricordi che nero e oro sono le caratteristiche di Franco Maria Ricci, tanto è vero si dice “Il nero Ricci). Da allora, anche chi non è perfettamente a conoscenza della differenza tra Berlucchi Guido e la nostra azienda più raffinata Fratelli Berlucchi, quando telefona specifica che si riferisce alla nostra, chiamandola “Etichetta nera”.  Proprio per questo abbiamo voluto fare uscire 7000 bottiglie dell’annata 2007 con etichetta storica dell’annata 1977, presentate nel 2014, che è il doppio di 7, numero esoterico con il significato della ricerca della perfezione alla quale ogni anima anela. Questa Freccia è partita nel lontano 1977 e nel suo volo parabolico, come fanno le frecce, è passata molto in alto, sopra le tristezze della vita, le tragedie del mondo, ma anche, in fondo, alle soddisfazioni e le gioie di cui abbiamo goduto e per le quali dobbiamo rendere grazie a Dio. Adesso questa Freccia è riatterrata per vedere un po’ cosa sta succedendo in questa Italia e in questa azienda Fratelli Berlucchi, sempre pronta a ripartire in un prossimo futuro.

  • Ma per Pia, proprio per Pia, cosa significa questa Freccia?

P.: Significa che in quell’anno o un anno dopo, ho cominciato ad occuparmi dell’azienda perché i miei fratelli vennero a casa mia, dove io mi occupavo dei miei bambini, e mi dissero di dare un’occhiata all’attività. E io, che venivo dal campo della medicina e non capivo niente in materia, arrivavo qua dove non c’era riscaldamento. Mi accendevano una stufetta in una stanzetta e stavo qui due ore indirizzita e poi tornavo in città nella nostra bella casa del Seicento, una casa di famiglia. Dopo un po’ di anni, ho rivoluzionato tutto. Altro che riscaldamento, tanto che quasi quasi ci dormivo in ufficio visto che ci trascorrevo dalle dieci alle dodici ore; come adesso del resto.

  • La Freccia, allora, è stata per lei l’inizio di una nuova vita. Come questo nuovo recente lancio, che avete chiamato Back to the future, non è una novità, ma un “ritorno al futuro”, in cui vi è la tradizione nell’etichetta storica. stampata, però, con i mezzi di oggi. L’etichetta non è stata cambiata di una virgola dal maestro Ricci, che si è commosso quando, nella presentazione da Pec a Milano, lei lo ha definito come una gloria del made in Italy che ha accompagnato la vostra storia. Questa Freccia sembra quasi il Bolero di Ravel che è un crescendo verso nuovi successi. Ma il vero valore vostro che riflette il made in Italy, qual è, secondo lei?

P.: Sicuramente la tradizione, che non è una catena al piede, ma una rampa di lancio verso il futuro, in quanto l’innovazione senza la tradizione non vale niente. Parliamo del vino e dell’importanza della donna nel rapporto con questo “sangue” della terra. Se vogliamo partire dal vino dei Sumeri e il racconto di Siduri, donna a cui gli dei donarono i tini d’oro e la capacità di vinificare. Da essa si recò l’imperatore per chiederle dove fosse la felicità. Siduri rispose che la felicità ce l’hanno solo gli dei e doveva tornare dal suo popolo, che aveva bisogno di lui e aiutarlo. Gli offrì anche del vino e lo invitò a smettere di cercare, tornare indietro e ricoprire con dignità e gioia il suo ruolo di guida per i suoi sudditi. Da qui il puntualizzare che la vita dell’uomo deve essere costellata da equilibrio e buon senso, altri valori che mi sono come stella polare. Se dovessimo dimenticare la tradizione, bisognerebbe dimenticare Omero, il commediografo Aristofane e tanti altri grandi personaggi che hanno tramandato saperi e rivelazioni fondamentali per l’umanità.

  • Visto che ha citato le donne e il vino, che valore aggiunto può dare il cosiddetto “gentil sesso” all’inebriante mondo vitivinicolo di cui lei in prima persona fa parte?

P.: Sicuramente la bontà di un vino non dipende dal sesso di chi lo cura. La donna riesce ad esprimere quella parte non materialistica, di fronte alla quale, invece, l’uomo si ferma. Sicuramente la donna dà per scontata l’essenza materiale di trasformare l’uva in vino, di venderlo e di proporlo, ma riesce anche a trasmettere quello che lei ha nell’anima, la sensibilità, l’emozione, insieme alla socialità, l’allegria e la versatilità. Insomma tutte queste caratteristiche femminili che sono i talenti, quelli citati nel Vangelo. La parabola dei talenti, per me, ha un significato che trascende l’aspetto squisitamente legato alla religione rivelata in questione. Penso, infatti, che, a qualunque religione si appartenga, non si può non restare affascinati e colpiti dalla consapevolezza che nella vita occorre incentivare il proprio potenziale. Quando sono stata Presidente dell’Associazione Nazionale Le Donne del Vino, io dicevo alle socie che i talenti che possedevano non li dovevano fare duplicare, come si limita a dire la parabola, ma farli quadruplicare.

  • Lei è una donna dall’eloquenza che incanta sia per il tono di voce che per la vastità della cultura che possiede, potrebbe raccontarci quali sono le caratteristiche della terra di Franciacorta?

P.: La terra di Franciacorta è stata presa in considerazione in modo più attento nella lavorazione della vite solo dopo la II guerra mondiale, anche se è stato scoperto che in età primitiva si schiacciava già l’uva, grazie alle raffigurazioni dei graffiti di Capo di Ponte, ritrovati in Val Camonica, la valle bresciana verso l’Adamello. Quindi di uva in queste zone ci si occupava ancora prima del passaggio di Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, quando Brescia si chiamava Brixia. È una terra che, quando non ha piovuto, appare bianca, secca, piena di sassi, con i quali, grazie alla saggezza dell’uomo antico che li toglieva dalla terra per seminarla, si facevano le antiche costruzioni. È una terra che può apparire brutta, ma, dopo la guerra, grazie ad un’accurata analisi, si scoprirà che ha questo colore infelice perché è piena di carbonati e sali minerali. Allora, non è vero che certi vitigni, che sono poi quelli che usiamo, Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Nero, amano “mangiare poco e restare magri” come molte ragazze? Infatti, da questa terra le radici dei vitigni ricavano quel niente che trovano, cioè niente che dia robustezza e sostanza, ma attingono quei sali minerali e quei carbonati che si trasformeranno nei profumi sottili, eleganti e molto evanescenti che caratterizzano le etichette di Franciacorta.

  • Una donna come lei, che ha portato nel vino questo binomio di razionalità e sentimento insito nella sua personalità e che nella musica ritroviamo in Bach e Chopin, gli opposti che mi ha detto di preferire, come potrebbe definire il rapporto tra l’essere umano, la vite e il vino?

P.: Noi abbiamo 70 ettari di terra attorno alla nostra bella Casa delle Colonne con degli affreschi risalenti al XIV- XV secolo. Produciamo 400 mila bottiglia, a causa delle rigide regole consortili di Franciacorta, raddoppiate per quanto riguarda il metodo classico rispetto a quelle dello champagne. Esse garantiscono che la potatura sia castigata, in modo che la pianta non si affatichi e, rispettandola, si abbia una produzione raffinata perché l’uomo non ricava il vino dall’uva, ma in un certo senso accompagna la natura nel suo corso stagionale. La accompagna nel potarla senza ferirla, nel dare “medicinali” a maggio, giugno, luglio, come si danno a un bambino per vaccinarlo contro le malattie e farlo stare bene. La accompagna quando taglia i grappoli d’uva, quando questi ultimi entrano in cantina per essere trasformati in vino. Anche qui la spremitura può essere fatta con pressioni diverse. Per esempio, se ne può fare una soft che genera il cosiddetto “mosto fiore”, ossia il top del mosto. Insomma, mi piace pensare che l’essere umano abbia avuto questo dono da Dio, l’uva, e la trasforma in vino accompagnandola senza mai farle violenza e rispettandola secondo quel principio di famiglia che mi è stato tramandato.

 Irene Catarella

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