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1 Donna su 3 ha subito violenza fisica o psicologica. Perché è ancora difficile denunciare?

1 Donna su 3 ha subito violenza fisica o psicologica. Perché è ancora difficile denunciare?
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Violenza verso le donne: violazione dei diritti umani e problema di salute pubblica

La violenza di genere è a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani, come stabilito anche dalla Convenzione di Istanbul, il più importante trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011: “con l’espressione ‘violenza nei confronti delle donne’ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce, invece, la violenza di genere “un problema di salute di proporzioni globali enormi” e stima che 1 donna su 3, ovvero oltre 700 milioni in tutto il mondo, subisca violenza fisica o psicologica da parte di un uomo nel corso della propria vita.

Come sancito dalla Convenzione di Istanbul e dall’OMS, la violenza perpetrata contro le donne costituisce, quindi, sia una grave violazione dei diritti umani che una significativa problematica di salute pubblica. La violenza può, infatti, avere forti ripercussioni sul benessere fisico, mentale, sessuale e riproduttivo di coloro che ne sono vittime, sul breve così come sul lungo termine. Le conseguenze possono tradursi per le donne in isolamento sociale, limitazioni nell’abilità lavorativa e compromissione della capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. Gli effetti della violenza di genere si estendono, quindi, ben oltre l’individuo coinvolto, influendo sul benessere di coloro che lo circondano – le famiglie e i figli, in primis – e dell’intera comunità.

La violenza di genere in Italia

Il 25 ottobre i casi di femminicidio registrati in Italia nel 2023 hanno raggiunto quota 100 e, da allora, non hanno smesso di aumentare. Un dato allarmante che mostra come la violenza sulle donne sia una piaga dilagante anche nel nostro Paese. Oltre agli episodi che, a causa del loro tragico epilogo, sono arrivati all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, ci sono moltissime altre storie di abusi e soprusi sommerse, a cui nessuno dà voce.

Secondo l’Istat, nei primi tre trimestri del 2023 sono state 30.581 le richieste d’aiuto arrivate tra telefonate e messaggi via chat al 1522, la linea nazionale antiviolenza e stalking. Un numero molto preoccupante, soprattutto se confrontato con le 22.553 registrate nel 2022 e le 24.699 del 2021.

Nel 47,6% dei casi è la violenza fisica a motivare la richiesta di aiuto. La violenza psicologica è la seconda causa delle chiamate (36,9%). Quando gli abusi sono multipli, è, invece, proprio la violenza psicologica a essere subita in forma più rilevante (62,3%).

Più della metà (64,5%) delle donne che si sono rivolte all’1522 nel 2023 riporta di aver subito violenze per anni, il 25,5% per mesi, mentre il dato relativo alle richieste di aiuto a seguito di uno o pochi episodi di violenza si attesta al 10%.

Il 24,8% delle vittime che si sono rivolte all’1522 ha paura di morire oppure teme per la propria incolumità o quella dei propri cari, mentre il 10,2% si sente molestata, ma non in pericolo. Altre donne, invece, provano forte ansia o si sentono in grave stato di soggezione.

Le violenze riportate all’1522 sono soprattutto di tipo domestico: nei primi tre trimestri del 2023 il 79,4% delle vittime dichiara che il luogo della violenza è la propria casa. Quasi la metà delle donne abusate, il 44,5%, è madre e di esse il 24,3% ha figli minori. Nel 57,1% dei casi anche i figli hanno assistito alla violenza e il 25,8% l’ha subita in prima persona.

C’è ancora una persistente resistenza a denunciare: il 59,4% delle vittime dichiara, infatti, di non aver denunciato anche se la violenza è perpetrata da anni.

Quando la mente protegge se stessa: i meccanismi psicologici di difesa

I meccanismi psicologici di difesa sono dei processi inconsci che si attivano automaticamente di fronte a eventi, interni o esterni, percepiti come pericolosi o stressanti, come, ad esempio, gli episodi di violenza. Nonostante questi meccanismi abbiano un’importante funzione protettiva e difensiva, potrebbero, in alcuni casi, alterare la percezione di pericolo e far sì che la vittima di violenza abbassi la guardia e non prenda azioni concrete per salvaguardare la propria incolumità.

Tipi di meccanismi di difesa psicologici

Alcuni tra i più comuni meccanismi di difesa psicologici messi in atto dalle donne vittime di violenza sono:

  • Negazione: La negazione è una risposta comunemente attuata dalle donne durante le prime fasi della violenza. Consiste nel proteggersi da una situazione traumatica evitando di guardarla e mettendo da parte o eclissando gli aspetti dolorosi e insostenibili della realtà. Coloro che mettono in atto questo meccanismo spesso tendono a minimizzare o addirittura a giustificare il comportamento dell’aggressore. La negazione può essere molto pericolosa, in quanto potrebbe portare la donna a non proteggersi da possibili nuovi maltrattamenti o abusi.

 

  • Evitamento: L’evitamento indica l’impossibilità di confrontarsi con un’esperienza traumatica. Nel raccontare le violenze subite, le donne che attuano questo meccanismo tendono spesso a perdersi in dettagli superflui, mantenendo una certa distanza dal problema principale. In molti casi si nota anche la tendenza a evitare situazioni che possano provocare e far “scattare” l’aggressore. L’evitamento può portare le donne a illudersi di aver trovato una strategia efficace con cui gestire la situazione e ciò può causare la procrastinazione della denuncia.

 

  • Dissociazione e depersonalizzazione: La dissociazione è una strategia difensiva che aiuta a distanziarsi da una situazione intollerabile, in cui non c’è altra via d’uscita per sottrarsi alla violenza. La dissociazione è un sintomo tipico del disturbo post traumatico da stress e consiste nel distaccarsi con la mente da ciò che procura dolore e dalle emozioni associate, nel tentativo di attenuarne l’impatto e proteggersi. In alcuni casi, questo meccanismo di sopprimere il dolore emotivo attraverso la disconnessione può prendere la forma della depersonalizzazione: le vittime possono sentirsi come spettatrici della propria vita, quasi come se la violenza stia accadendo a qualcun altro, contribuendo a distanziare l’esperienza traumatica.

 

  • Minimizzazione: La minimizzazione consiste nel sottostimare e minimizzare gli atti violenti, considerandoli meno gravi di quanto siano in realtà. Questo meccanismo può sì contribuire a ridurre il dolore emotivo, ma potrebbe, al contempo, mettere seriamente a rischio l’incolumità delle donne che lo attuano.

 

  • Razionalizzazione: Tale meccanismo consiste in una giustificazione razionale del comportamento dell’aggressore da parte della vittima che, in questo modo, tenta di gestire e tenere a distanza le proprie emozioni. È così che la donna cerca di spiegare e giustificare il comportamento violento del partner attribuendolo a fattori esterni, come lo stress, la gelosia o problemi personali.

 

  • Idealizzazione: Idealizzare qualcuno significa concentrarsi sulle sue qualità positive, ignorandone i difetti. Questo meccanismo può far sì che la donna si focalizzi esclusivamente sui momenti positivi trascorsi col partner, bloccando l’accesso alle memorie traumatiche e impedendole, così, di vedere gli aspetti abusivi della relazione e allontanarsene. In alcuni casi l’idealizzazione può essere sostenuta da alcune credenze disfunzionali, come l’idea che atteggiamenti di gelosia e controllo siano indici dell’attaccamento del partner.

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