Le sue cause non sono ancora molto conosciute, ma sappiamo che è generalmente più diffuso nella terza e quarta età e, talvolta, specie se associato a patologie legate allo sviluppo, si verifica anche in altre fasce di vita. Parliamo del deficit delle facoltà cognitive. Ad approfondire questo tema è Luigi Ferrannini, Medico specialista in Psichiatria e componente del Consiglio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Genova.
«A oggi, i fenomeni scatenanti del declino cognitivo non sono ancora completamente noti. In alcuni casi riguardano la malformazione o il mal funzionamento delle aree cerebrali. Possono poi verificarsi cause vascolari, neuropatologiche e neurodegenerative, ma anche patologie infettive di varia eziologia. L’invecchiamento è certamente una delle principali cause. In questo caso si verifica una neuro-degenerazione che provoca un declino delle facoltà cognitive. Per quello che riguarda poi altre patologie, possono rientrare tra le ulteriori cause del deficit anche altre forme di demenza, l’Alzheimer. Ma anche le conseguenze di eventi vascolari acuti come gli ictus e di patologie di natura oncologica cerebrale. Si tratta di patologie che non sono esclusivamente collegate all’invecchiamento o alla degenerazione, ma che possono sopraggiungere anche in altri momenti della vita».
In che modo può degenerare questo deficit?
«In genere il declino cognitivo ha un andamento progressivo con tempi differenti. Solitamente è possibile rallentare il processo, ma per ora non abbiamo strumenti che ci consentano di bloccarlo. La capacità delle persone di comprendere e di avere cognizione di sé e delle proprie azioni va peggiorando nel tempo. Le conseguenze, da lievi, possono diventare di media e grave entità. È però opportuno sottolineare che si tratta di deficit cognitivi, non emotivi. L’aspetto emotivo resta sempre presente nella persona, anche se talvolta le sue reazioni possono essere lievi. Ma è importante rimanere comunque vicini alla persona che soffre, manifestando sempre empatia e condivisione».
È possibile in qualche modo prevenire il deficit cognitivo e come si possono identificare i primi sintomi?
«Considerando che un decadimento delle funzioni cognitive e della memoria è fisiologico con l’invecchiamento, è importante dare il giusto peso e significato a ogni situazione, trasmettendo una comunicazione corretta relativamente a questo disturbo. Se esistono più fattori collegati alla patologia, è importante riconoscerli fin da subito e porli in una sequenza temporale, inserendoli in opportune “scale di valutazione” per una corretta “misurazione”. I comportamenti di cui tener conto sono la perdita della memoria, un atteggiamento di chiusura e isolamento, la paura delle relazioni. Lo stesso isolamento tende a sua volta a peggiorare la situazione di deficit cognitivo; allo stesso tempo, rappresenta una forma di “tutela” personale nei confronti di prove che possano dare un esito negativo rispetto al declino cognitivo. Non infrequenti sono poi alcuni disturbi comportamentali. Per esempio, rabbia, comportamenti che possono poi degenerare in disturbi più gravi, come manifestazioni aggressive, la necessità di muoversi ripetutamente ( il fenomeno del “wondering”). Ciò si verifica soprattutto nelle fasi più avanzate della patologia».
Che ruolo può avere il medico di base nell’identificazione del deficit?
«Il suo ruolo è importante nei casi in cui abbia un rapporto molto stretto con il paziente. Dovrebbe conoscerlo molto bene, tanto da identificare i primi segnali di un decadimento cognitivo. Ma generalmente è la famiglia a cogliere il primo segnale: i famigliari sono coloro che conoscono meglio la persona e sanno interpretare i suoi comportamenti e la sua comunicazione, oltre a poter fare dei confronti con le condizioni precedenti. Questo è il primo “angolo di osservazione”. Se il paziente vive da solo, si presuppone che abbia comunque una rete di contatti – anche caregiver e badanti devono essere pronti ad accorgersi di questi segnali iniziali – e di amici che possano cogliere il verificarsi di una situazione anomala. Il medico di base può comunque comunicare al paziente i consigli per gestire gli aspetti biopsicosociali. In questo modo è possibile rallentare l’avanzamento del disturbo, ma a ora non abbiamo strumenti e terapie in grado di impedire definitivamente il processo di decadimento».
Una volta diagnosticato questo problema, come si può intervenire?
«Il primo passo sono gli esami diagnostici e neuro-radiologici, dai quali si può dedurre il grado di compromissione cerebrale del paziente, in base all’andamento dell’evoluzione del deficit cognitivo. Per quello che riguarda la presa in carico, da qualche anno sono stati attivati dei servizi per la diagnosi ed il trattamento dei deficit cognitivi, attraverso la costituzione dei Cdcd (Centri deficit cognitivi e demenza). Vi è una rete anche nella regione Liguria, con il Centro di riferimento regionale nella Clinica Neurologica del Policlinico San Martino di Genova. I Cdcd hanno anche il compito di fare una diagnosi precoce, dare indicazioni operative e assistenziali a famigliari e caregiver anche per altre patologie, favorire l’adesione al trattamento, garantire un periodico follow up del Piano assistenziale individualizzato (Pai). Da tutto ciò si deduce l’importanza di un rapporto molto stretto tra sanità e paziente, per consentire un attento monitoraggio non solo del deficit cognitivo, ma naturalmente di tutte le patologie».
Luigi Ferrannini
Nato a Bari nel 1948, laureato in Medicina e Chirurgia nel 1972, specializzato in Psichiatria nel 1976 ed in Neuropsichiatria Infantile nel 1979. Primario di Psichiatria dal 1980, ha lavorato in Ospedali Psichiatrici, Centri di Salute Mentale e Servizi Psichiatrici Ospedalieri. Consulente del Ministero degli Affari Esteri per lo sviluppo di Programmi di Cooperazione Internazionale nell’area dell’assistenza psichiatrica e della salute mentale in Paesi in situazioni di conflitto. Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ASL n. 3 “Genovese” dal 1994 al 2013, data di pensionamento. Consulente del Ministero della Salute, della Conferenza Stato-Regioni e dell’AGENAS sui temi della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica dal 2006 al 2016 e dell’Agenzia Sanitaria della Regione Liguria dal 2013 al Maggio 2016. Segretario della Società Italiana di Psichiatria (SIP) dal 2000 al 2009 e successivamente Presidente dal 2009 al 2011. Attualmente Consigliere Onorario. Socio fondatore (1999) dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) e attualmente Presidente del Comitato di Garanzia ed Indirizzo. Componente del Consiglio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Genova dal 2015 al 2017 ed attualmente dal 2018 al 2020.